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2013
Se Assad smantellerà le proprie armi chimiche, Barack Obama passerà alla storia per aver ribaltato la concezione della diplomazia di Theodore Roosevelt che predicava di “parlare dolcemente, ma portando un grosso bastone”. Durante la crisi siriana Obama ha infatti usato parole sempre più dure per nascondere la mancanza del bastone o la riluttanza a usarlo. Fuor di metafora: lo strumento militare americano è in forte crisi d’identità, di efficienza e di risorse e – con buona pace di quanti, sui social media o in ruoli con la massima visibilità globale - gli americani hanno sempre meno voglia di usarlo.
Se Obama avesse voluto intervenire a ogni costo avrebbe seguito l’esempio dei suoi predecessori e ignorato il dettato costituzionale (art. I, sez. 8), come fece nel 2011 per colpire la Libia su richiesta francese. Chiedere il voto del Congresso, dove la Camera repubblicana gli è ostile, è un azzardo che si spiega solo con la necessità di mantenere Assad sul chi vive mentre la diplomazia lavorava nell’ombra.
Obama sa bene che due terzi degli americani sono contrari a operazioni militari in località lontane e a loro sconosciute. Percentuali analoghe si registrano tra gli analisti militari e di politica internazionale. Un po’ come il suo predecessore Lyndon Johnson, che avrebbe voluto evitare la distrazione del Vietnam per costruire la “Great Society”, Obama ha ribadito che prima della Siria vengono gli enormi problemi sociali interni.
Ciò sorprende solo chi ignori che l’isolazionismo è radicato nella politica estera statunitense dai tempi di George Washington e che per aiutare la Gran Bretagna contro Hitler persino Franklin D. Roosevelt dovette scontrarsi con un Congresso isolazionista. I 252 “no” annunciati (su 435 deputati) rispecchiano questo sentimento.
Non a caso il passaggio centrale del discorso televisivo di Obama è la promessa di non inviare soldati in Siria, di non impelagarsi in azioni a tempo indeterminato come in Iraq o Afghanistan, di astenersi da una lunga campagna aerea come in Kossovo o Libia (dove, peraltro, gli USA si limitarono a fornire aerorifornitori e aerei da ricognizione elettronica, partecipando agli attacchi solo nelle prime ore).
Alla resistenza “culturale” si aggiungono i problemi del deficit federale e del debito pubblico, il cui limite il Congresso a metà ottobre sarà ancora una volta chiamato a innalzare. Un decennio di guerra in Medio Oriente ha acuito la consapevolezza dei costi diretti e indiretti di elefantiasi logistica, complessità dei moderni sistemi d’arma, procedure bizantine di acquisizione e rivalità interforze. Per farla breve, tutti sanno che il bilancio della difesa USA è il più alto del mondo: i 682 miliardi di dollari stanziati nel 2012 superano di 30 miliardi il totale dei dieci successivi Paesi in graduatoria, dalla Cina al Brasile.
Pochi però ricordano che questa cifra enorme in proporzione rende meno degli stanziamenti assai minori stanziate di altri Paesi, Italia compresa. Di fronte agli ostacoli che impediscono una riforma organica del comparto, Obama ha scelto i tagli lineari automatici. Il cosiddetto “sequesterer” del 10 per cento annuo ha gettato nel panico i militari abituati – tra l’altro - a stanziamenti per le bande musicali militari superiori all’intero bilancio federale per la ricerca nelle scienze umane (National Endowment for the Humanities).
Resta la simpatia con la quale l’opinione pubblica guarda a chi si ribella contro la dittatura. La mediocre gestione delle crisi in Egitto e Libia, i segnali sul coinvolgimento di forze straniere nell’ex ribellione spontanea in Siria e l’assoluta mancanza di chiarezza sull’esito finale desiderato sono altrettante ragioni che consigliano prudenza.
Ciò spiega perché sinora Obama abbia preferito parlare duramente e lasciare a casa il bastone – o, come si direbbe da noi, a “fare la faccia feroce”. Di fronte al bluff dell’ex poliziotto globale senza più voglia e capacità di intervento, Russia e Francia si sono prestate al gioco, dal quale guadagneranno prestigio. Non così la svirilizzata Germania, l’ectoplasmatica Gran Bretagna e l’imbozzolata Italia, incapace di andare oltre i luoghi comuni di una politica estera ormai a livello condominiale.
Nel 1906 Roosevelt fu il primo presidente degli Stati Uniti a ricevere il premio Nobel per la pace, per il suo ruolo nelle trattative per chiudere il conflitto russo-giapponese. Se davvero Assad rinuncerà davvero alle armi chimiche senza l’intervento armato americano, Obama potrebbe dimostrare retroattivamente di meritare il Nobel attribuitogli “sulla fiducia” nel 2009.
OBAMA E LA SIRIA: CAN CHE ABBAIA …?
11/09/13
Un’analisi eterodossa della gestione della crisi libica da parte degli Stati Uniti, senza più la forza per essere i poliziotti globali.
My take on Barack Obama and the Syrian crisis: speaking loudly without carrying a big stick. Good-bye, Teddy Roosevelt.